Con le ruote all’aria. 1500 km e un semaforo.
Sono a Milano, il contachilometri parziale del GPS segna millecinquecento.
Quella fantastica opera d’arte d’ingegneria elettronica che mi porto sempre appresso, porta ancora i segni di un fantastico week-end passato nella zona montuosa di Civitavecchia.
Velocita’ media in movimento settantacinque, una media totale che tocca poco meno di cinquanta chilometri all’ora.
Il cartellino della velocita’ massima, indica che ho strappato un centotrentaquattro da record. Una velocita’ tale che parla da sola. Sono andato a divertirmi, senza correre, senza cercare l’ebrezza del viaggio nel tempo dovuto al raggiungimento della velocita’ della luce. Chissa’, magari qualcuno serpentando tra le macchine tra le moto, le bici e i camion ce la fara’. A me non interessa. Almeno non in moto, rischiando la vita.
Poi, parliamoci chiaramente, la mia moto non me lo consente. Forse la mia povera e vecchia Africa Twin reggerebbe medie superiori. Ne sono certo. Ma io non credo sia stata fatta per questo. Non per la velocita’, non per le corse. Certo c’e’ anche da dire che la mia indole da turista non digerisce l’idea di medie record da casello a casello. Non lo facevo guando guidavo un potente cbr 900 che di cavalli ne aveva piu’ del triplo di questa.
Gia’ allora come recentemente m’ha ricrodato una casa motociclistica, facevo un’uso non consono di una moto, gia’ allora guidavo un fireblade come ora guido un’Africa Twin. Per il puro piacere di gustarmi ogni attimo di un week-end in strada, per il puro godimento dato dal leggero vento che mi colpisce la faccia a visiera semiaperta.
L’idea di fuggire dal posto in cui mi trovo, dal vivere un trasferimento in maniera poco rilassata, l’idea di perdere la sensazione d’essere ricettivo nei confronti di cio’ che mi circonda trascende la mia filosofia di utilizzo della moto.
Vado piano, sempre. Forse, utilizzo questa mia teoria con gli amici che la moto la sanno usare davvero. La utilizzo come scusa quando regolarmente si fanno trovare con la sigaretta in bocca dopo l’ennesima risalita di qualche passo alpino : “T’abbiamo dovuto aspettare due ore. Sei sempre l’ultimo. Ma sei salito coi freni tirati? ecc. ecc.” Gia’, capita. Non i freni, ma di far guadagnare la vista di un bel panorama a qualche amico mentre io mi godo la lenta risalita. Mi godo certi tratti in moto gustando il piacere di una guida che fa di me un motociclista che ha lasciato a casa la voglia d’arrivare. Ho lasciato a casa la meta, devo arrivare dove non si sa, in quanto tempo men che meno.
Sono le 19 circa, lavo la moto al solito lavaggio con quell’usuale gesto che sancisce la fine del week-end. I soliti gettoni, la solita pozza di fango sotto la moto che per me’ non vuol dire lavar via il fango e la polvere, ma come mi piace invece pensare, lavo via tutto per far posto ad altro. Ad altre esperienze. Ad altre giornate come quella che ho appena vissuto.
Con la moto ancora gocciolante lascio l’area di servizio. Le gocce d’acqua scorrono lungo il prabrezza e mi s’infilano sulle guance esposte al vento.
Fa caldo, questa e’ una sensazione che vale un lavaggio. Sono in circonvallazione, percorro la preferenziale, a Milano si puo’. Non c’e’ traffico, non ci sono incroci. Mi sorpassa un ragazzo su una Husqvarna da enduro. Un seiedieci. non ne avevo mai viste qui in citta’. E’ tutta pulita tranne la targa. Un maestro nell’arte del cesello non avrebbe fatto di meglio nel riuscire a ritagliare il fango sul piccolo quadrato come invece ha fatto lui. E’ Rosso, mi guarda. Io lo guardo. Accellera in folle. Bel motore il suo. Molto silenzioso il mio. Che belli entrambe con le loro differenze sonorita’. Non sono certo se lui veda in me un nemico o per il semplice fatto che indosso un casco da enduro sporco come un sacco dell’immondizia veda in me una sorta di fratello motociclista. Semaforo verde, lui snocciola le marce come una saetta impaurita. Si volta indietro. M’ha sverniciato. Ha vinto. Io lo guardo, hai vinto. Non siamo fratelli. Siamo nemici. Contento lui.
Semaforo rosso, il pilotone sulla moto da tacchinaggio con la targa camuffata e’ sfuggito alla mia vista. Sento solo da lontano il frullare cattivo del suo motore. A me manca una svolta per arrivare a casa.
Penso a quanto siamo differenti. Finche’ l’unica cosa che mi vien da pensare e’ come sono finito in terra. La moto a dieci metri da dove si trovano le mie gambe. Io sono letteralmente seduto sull’asfalto, li, dove trenta secondi prima aveva sgommato l’endurista di citta’. Il motore della mia africa frulla ancora, un leggero fumo esce dallo scarico.
La posteriore gira su se stessa in cerca l’asfalto. Non lo trova. Gira in maniera tremolante. Vorrebbe fermarsi, vorrebbe trovare il grip che qualcuno le ha improvvisamente tolto. In un secondo ho quattro persone attorno. Capisco che una smart m’ha tamponato. la vedo dietro la mia schiena.
La gente attorno m’assilla di domande : “Come stai? Andavi forte? Che hai fatto? “ io guardo solo la ruota della mia Africa che gira. Sto bene, lo sento. Mi pare. Ma quella ruota che gira a vuoto con la moto stesa inerte sul fianco sinistro imi mette un’angoscia terribile.
Mi sembra di vivere il lavaggio del cervello subito da Alex in Arancia meccanica. Mi alzo.
Corro da lei. La spengo.
Mi tocco, sono tutto intero. Mi risiedo quando arriva il conducente della smart. Un ragazzo. Gli occhiali da sole non se li toglie. Non so che occhi abbia. Gli dico solo che sto bene. Lui forse me l’ha chiesto.
Due ragazzi a piedi mi guardano attoniti. “Ero fermo, dico io. Immobile. Piu’ lento di come mi piace muovermi di solito.” Chiamano l’ambulanza che arriva in un battibaleno.
Chiedo ad un signore di spostarmi la moto sul marciapiede. Lentamente, senza farle male. Quando torna le chiedo come sta. Lui :” Non s’e’ accesa. Il manubrio storto. “. “Amico, ma l’hai riacceso il pulsante di massa? “ Chiaramente no.
Mi rassereno subito, ma mi trafigge comunque il cuore la storia del manubrio. Ho percorso millecinquencento chilometri nel week-end, duecento di questi d’enduro. Nessun problema, ne a me ne alla mia moto. Ora sono a casa, nella mia citta’, anzi sono praticamente sotto casa e un ragazzo con una smart m’ha investito. Ironia della sorte.
Sono in ospedale. Legato su una barella. Io lo sento che non ho nulla. Insomma se mi fossi fatto realmente male penso che lo capirei e meno male cosi’ non e’. Un’infermiera tenta di spogliarmi. Chiaramente le dico di evitare di tagliarmi tutti i vestiti. Inizia con gli stivali. Mi prende subito un colpo. Non per il dolore. Non perche’ la gamba mi abbia provocato il benche’ minimo dolore. No il colpo mi prende perche’ quest’infermiera per quando gentile ha tentato di togliermi uno stivale da enduro perfettamente allacciaio e tirato. Dubito che sarebbe mai riuscita nell’impresa di togliermi quello stivale senza dover ricorrere all’amputazione dell’arto o in maniera piu’ semplice slacciandoli.
Questo suo gesto mi fa pensare a cosa m’avrebbe potuto fare se veramente la gamba mi avesse fatto male. Chiama rinforzi. Io alzo la schiena e le faccio vedere come si fa’. Lei mi dice di stare giu’. “ma signora, sto bene.” “ E lei come fa a saperlo. Non e’ un medico.” gia’ ma la gamba e’ la mia. Cazzarola.
Mi sento trattato come un bambino. Inerme.
Arriva l’ambulanziere capo. Quello che m’ha caricato. Mi dice : “ma da dove arrivi dal set di guerre stellari? “. “Ehm no sai, sono appena arrivato da un giro d’enduro.”. “ammazza come sei bardato. “ e io : “Be’ meno male no? che dici?”.
Mi togono la giacca, ho l’armatura Dainese che m’avvolge la schiena e il Torace. Quando me la tolgono e la sbattono per terra esce una nube di polvere di cui loro non si danno spiegazione. Temo vogliano prendere un’estintore per spegnere quello che pensano possa trattarsi d’un principio d’incendio.
Per togliermi i pantaloni non fanno molta fatica. Quando vedono i tutori alle ginocchia non credono ai loro occhi. “E questi? hai problemi alle ginocchia? “ “No, sono tutori preventivi. Limitano i movimenti involontari del ginocchio. Ecco vede una cosa che non deve fare e’ ruotarmi il piede per tentare di togliermi la ginocchiera, altrimenti mi si spostano anche i denti. “ .“Ah!, Voi motociclisti di solito andate in giro in maglietta e ciabatte. se fossero tutti come te !“ Dopo questa massima che ahime’ nasconde un velo di realta’ mi rimettono sul lettino. Comodo. “Ma una sedia? Sto bene”. “Finche’ non viene riclassificato lei non si puo’ muovere.”
Mi sembra d’essere in matrix. la Riclassificazione, quella procedura dal gusto inquisitorio dove decideranno cosa fare di cio’ che rimane di me’.
Arriva un’infermiera. M’aggredisce : “E tutta questa roba? Cosa ne facciamo ?” “In che senso?” faccio io. “Nel senso che dove la mettiamo? non puo’ venire a farsela portar via?” Si riferisce al sacco d’immondizia dove hanno messo le mie centinaia di euri di attrezzatura da enduro. Protezioni, giacca, casco. La signora mette tutto su una sedia a rotelle, sotto la valigia che era caricata dietro alla mia moto e che contenendo i ricambi non e’ certo leggera. Il casco veiene appeso all’asta che solitamente regge le flebo. Che roba triste.
Mi parcheggiano questo manichino di roba a fianco. Mi intimano di non lasciarla in giro. Nessuno accenna al fatto che questa roba m’ha salvato da contusioni ed escoriazioni. Nessuno che possa pensare al fatto che non tutti hanno la voglia di spaventare le famiglie prima del dovuto solo perche’ non sanno dove parcheggiare i vestiti.
L’attesa si prolunga. Sento arrivare delle grida dall’altra ala del pronto soccorso. Esce un ragazzo con le mani tra i capelli. Grida che suo fratello e’ morto.
E’ una scena che blocca la circolazione dell’aria all’interno della sala d’attesa. Tutti i respiri si bloccano nello stesso istante. Il ragazzo aveva ventidue anni. Terribile.
Chiamano il mio nome, mi vien voglia di tornare a casa, dopo aver sentito quello che e’ successo a quel ragazzo mi sembra di rubare del tempo ai dottori.
Chiedo all’infermiera se vuole che mi spinga da solo appresso il manichino della roba. lei mi risponde scocciata.: “ lo porto io, ma poi lo lasciamo dentro.”
Entro per la procedura di riqualificazione. Non ci sono essere extraterrestri mandati da chissa qualche forma di vita ad accogliermi, ma un simpatico medico. Mi chiede cosa sia successo e l’infermiere intanto mi dice :” Ma sta roba dove la lasciamo? “Chiaramente si riferisce al mio sacco di roba. Prima che riesca a rispondere sono in sala radiografie.
mentre l’addetto mi rigira come una salame e mi flasha con le radiazioni penso alla mia moto sotto l’acqua. Fuori piove. Che palle. Voglio andare a riprenderla piu’ in fretta che posso.
“Monticelli “ Chiama l’infermiere, entro nella stanza. Non ho nulla. “Cortesemente, porti via tutta la sua roba”.
Io :”Volentieri dottore, non prima d’essermela rimessa per andare a recuperare la mia moto”.
Esco dal pronto soccorso. diluvia. chiamo un taxi. Mi faccio portare al cospetto della mia Africa. Una piccola ammaccatura al serbatoio. la targa un po’ piegata. parte senza problemi.
Ora posso tornare a casa. Non prima d’essermi seduto sul marciapiede. Guardando la pioggia che cade sulla mia moto. Cercando in me la consapevolezza d’essere stato fortunato perche’ domani saro’ ancora in moto sulla mia Africa.