L’Africanizzazione

October 15th, 2007
Cos’e? L’ennesimo effetto del buco dell’ozono? Una nuova corrente culturale? Un libro di cucina etnica? Una maliattia? No, nulla di tutto questo, Io so cos’e’ l’Africanizzazione per me, ovvero l’insieme di alcune componenti che danno vita a questa storia.
Un’idea, una moto da Rally che corre tra le sabbie di qualche deserto Africano.
I protagonisti, un uomo sui trent’anni, probabilmente malato di mente; Io, e una moto, lei, un’ Africa Twin RD03 del 1988 con chissa quanti chilometri alle spalle, chissa quante esperienze, chissa quanti cuori infranti. Chissa quanta strada avrebbe potuto ancora percorrere prima che quest’ idea mi passasse per la testa.
Il regista di questa malsana storia potrebbe essere il grande Salvador Dali, capace di congiungere in maniera surreale filosofie apparentemente inavvicinabili.
Si, ci vorrebbe Salvador, che attraverso percorsi lungimiranti, quasi pazzeschi, pieni di doppi sensi e di riferimenti storici con le sue opere ti porta a vedere oltre i normali canoni di “normalita’”.
Un pazzo? Forse. E quasi mi sentivo pazzo pure io quando mi rendo conto che stavo per scrivere questa storia.

E’ una mattina di inizio settembre.
Mi spacca i timpani il rumore pungente e maledetto del cellulare che suona la sveglia.
Apro gli occhi e mi rendo conto che non e’ sabato. Cazzo, e’ forse martedi’ o mercoledi’, bisogna andare a lavorare.
Scaravento il pugno sul nokia e impreco verso il Finlandese che non ha reso impostabile la quantita di minuti tra una rintronata e l’altra.
Sono costretto ad alzarmi, al mio fianco una mappa, quella della Tunisia, pese che visitero’ per la quarta volta a fine ottobre assieme agli amici. Quella vecchia carta Michelin ormai e’ un papiro da macello, spiegazzata, malpiegata, consunta, e con qualche macchia di cous cous, ma le voglio bene, non la butterei mai.
Le mappe si amano, non si buttano. Le mappe son belle anche per questo, dopo che le hai usate portano i segni della vacanza. Questa che ora potrebbe essere scambiata come una pergamena indicante il percorso per il tesoro di qualche pirata, di trasferte ha fatte tre.
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La mappa


Questo vuol dire tre studi di itinerario, centinaia di orientamenti sul posto. Migliaia di commenti post viaggio. Centinaia di migliaia di errori. Mentre la guardo un flashback mi colpisce come un’incudine piovuta dal cielo :

Sono in Africa. Caldo bastardo, sabbia sulla lingua, negli occhi, nel naso, dapertutto.
Nell’aria quel tipico odor d’Africa che non ho mai capito se sia il connubio tra agnello e benzina o semplicemente una mia malattia mentale. Sono in viaggio sulla mia Twin, intento a leggere il GPS e a confrontarlo con i dati letti nel roadbook. Il roadbook scorre elettricamente, silenzioso e preciso grazie alla pressione di un piccolo tasto alla mia sinistra. Una carena alta protegge la strumentazione digitale.
La velocita’ di crociera sulle dune e’ quella del vincitore dell’ultima edizione della Parigi Dakar.
La marmitta spara al cielo il rombo del bicilindrico giapponese, ma non quello classico della mia moto. Quello che sento e’ il canto della moto che vedo plasmarsi come un quadro surrealista davanti ai miei occhi. E’ un’Africa, e’ la mia Honda, ma questo e’ vero solo per quel che riguarda il telaio, le ruote. Il resto e’ arte, e’ la modifica che Dali’ ha plasmato sulla mia moto.
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I lavori..

Inquadro il serbatoio di quel capolavoro, vedo una mappa. E’ legata con un ragno, metto a fuoco, ci vedo delle mani. Sono le mie, ora e’ tutto annebbiato, il rombo si diffonde, si allontana. Al suo posto comprare il rumore di citta’, un po’ come quello che si sente dal balcone di casa mia.
Anzi’, questo e’, il rumore del balcone di casa mia. La mappa legata sul serbatoio con un ragno diventa improvvisamente la mappa che c’e’ sul mio letto.
Io non ho un roadbook, non ho un pulsante che lo faccia scorrere. Mi sono appena svegliato, ma non so come mai mi pare d’aver la sabbia Tunisina sotto al sedere.
Mi lavo la faccia, non posso resistere a lungo nel limbo tra realta’ e sogno come sono in questo momento.

Improvvisamente ho il copione di questa storia in mente, lo mettero’ in scena. Il copione sembra scritto da Dali’ in persona. Temo che lui non potra’ dirigere le riprese, ma lo faro’ io, come se fosse opera sua.
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la costruzione del telaio

Inizia l’operazione Africanizzazione, budget per l’impresa : limitato. O meglio, qui corro il rischio di spendere piu’ soldi per Africanizzare la moto di quanti ne abbia spesi per comprarla.
Diciamo che la cifra giusta per far andare in scena il sogno, tramutandolo da finzione a realta’, e’ all’incirca il suo prezzo d’acquisto.

Si, la cifra giusta sono millecinquecento euro. Diciamo che e’ la soglia oltre la quale avrei dimostrato che Dali’ era un pazzo. Voglio avere un capro espiatorio.

Ora bisogna muoversi con la ricerca dei pezzi. Il sogno e’ di poco fa, di questa mattina, ma la scimmia Africana mi frulla per la testa con la sua trombetta e il suo tamburo da tempo. So gia’ dove andare a pescare un po’ di informazioni.
C’e’ il forum dell’Africa Twin Club, c’e’ il grande gpmucci che con le sue modifiche da urlo mi sara’ sicuramente d’aiuto. D’altronde se c’ho gli incubi di notte e’ pure colpa sua, mi deve aiutare per forza. Sarebbe omissione di soccorso se non lo facesse.
C’e’ il sito di Africanqueens, quello della Touratech per non parlare di quello di Boano, praticamente delle gioiellerie per i possessori di vecchie e consunte Africa Twin.
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Sara’ un bel film???

Ci sono poi tanti pazzi in giro per la rete che producono pezzi per la mia vecchietta. Come quello di Motobau. Una manna caduta dal cielo.
In quattro e quattr’otto ho gia’ trovato forcelle, piastre, cerchio e pinza del freno. Insomma sono gia’ a meta’ dell’opera. Su vari mercatini dell’usato trovo il resto. La carena Africanqueens gia’ verniciata e il telaietto. Vado a prenderli una sera nei dintorni di varese da un ragazzo del Forum @.
Quando mi vede arrivare con al moto e’ sbalordito : “ma dove la carichi sta roba? Ti ci sta?”. Io preso dalla scimmia del tuner di Africa : “ certo che mi ci sta, ci deve stare. “ E ci sta.

Mi manca la strumentazione, quella e’ la cosa piu’ difficile. Innanzitutto mi trovo nell’indecisione piu’ assoluta.
Mi si pongono dubbi Amletici. ICO, IMO, MD, o RB-TT che cazz, di strumentazz agghio a montazz. Scarico mezzo scibile di google in merito ai cockpit di moto da Rally, queste sembrano montare praticamente sempre l’accoppiata MD/ICO. Telefono all’importatore, chiedo il prezzo. Metto giu’.
Per comprare quella roba mi serve al meta’ del budget che mi sono prefissato. Costa come l’oro, ma oro non e’ zio kannone.
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Una scena durante le riprese

Mi deciso per la roba Touratech, sembra costare un po’ meno ma usato non si trova manco qualcosa fatto di legno.
E’ passata una settimana, ho le forcelle e il cerchio in arrivo dalla Germania. Ma la strumentazio latita. Non mi va giu’ di acquistarla nuova, arriverei in un battibaleno al raggiungimento della soglia off-limit. Millecinquecento neuri di ferraglia.
E se poi non riesco a montare nulla? Mi comincia a venire qualche dubbio. Temo d’aver fatto la cazzata grossa. Ma ecco che il malumore mi passa, quando m’arriva la telefonata del negoziante a cui ho ordinato i fari : “Sono, arrivati. Con un giorno d’anticipo.”
Appena metto giu’ il telefono, mi parte l’embolo. Vado sul sito della Touratech e ordino il kit rally50. Nuovo. Minchia. Dali’ era un pazzo.
Acquisto tutto con la carta di credito, quando la transazione va a buon fine sento il risucchio dal portafoglio. Ora non si torna piu’ indietro. Come direbbe Christian F. Sto a Rota, sono nel limbo dei tossici, c’ho la scimmia della modifica a mille che mi fa ribollire il sangue.
Ormai non torno piu’ indietro. Ormai sto Africanizzando pesantemente.
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Passano un giorno o due, arriva la roba dalla Germania. Uno scatolone enorme.
Chiaramente riesco a caricare anche questo sulla moto, porto tutto a casa e apro. Due forcelle WP Upside down a steli rovesciati, un cerchio excel e una pinza freno brembo.
Le piastre hanno un perno predisposto per la mia Africa Twin. Sono come le care e vecchie scatole del lego. Un foglio d’istruzioni e via.

Do’ un occhio all’orologio. Le venutno. Potrei iniziare a lavorare ora. Montare la forca, vedere se funza.
Potrei girare il primo atto dell’Africanizzazione, sedermi sulla poltrona del regista e dire : motore. Ah, che emozione. Potrei iniziare a godere dell’ammortizzamento WP, del gusto estetico delle forcelle nere, immaginandomi su delle gialle dune e su un lungo pistone Africano.
Sono cosi’ impaziente di iniziare i lavori che potrei svitare le viti coi denti, evitando spanature ma dando lavoro al mio dentista.
No, e’ troppo tardi, tralascio di testare la dinamometrica dentale e poi la moto mi serve per girare a Milano. Devo recuperare gli ultimi particolari prima di fermare tutto per i lavori. Mi servono i cuscinetti dello sterzo, i parapolvere e un po’ d’alluminio.
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Se ci vedesse Salvador …

Mi riconcentro sulla scatola. E’ tutto usato, ma i tedeschi in queste cose sono precisissimi.
Mi avevano assicurato che la roba era quasi nuova, deriva da una modifica “competition” di un 525. Le molle sono come mamma le ha fatte. Adatte ad una moto da 120 Kg, ma non alla mia pesante Africa. Devo portare tutto alla Oram qui a Milano e farmi modificare l’assetto.
Cio’ vuol dire attesa. Questo sara’ un colossal. Ah se Dali’ fosse ancora vivo.

Sono passate due settimane dal giorno d’inizio dell’operazione Africanizzazione. Due settimane da quando ho ricevuto il messaggio divino attraverso al sogno premonitore.
Ora si fa sul serio. La strumentazione Touratech dovrebbe arrivare a giorni. La roba che ho ordinato doveva arrivare dalla Germania e i tempi sono stati un po’ piu’ lunghi.
Tutto e’ sincronizzato. Ritirare le forche modificate, due giorni per montarle, preparare il telaietto portastrumenti, poi installare tutta la roba d’oro della Touratech quando arrivera’.
Metto la moto in cantina. Non ho a disposizione il box di mamma Honda o quell’officina asettica e perfetta che fa parte dei sogni di tutti noi malati di modifiche. No, tra le mie mani solo uno scantinato dove riuscire ad infilare la moto e’ gia’ un miracolo.
Ci si riesce, ma non senza qualche imprecazione. Una curva a gomito nel giardino, qualche scalino, la porta alta un metro e mezzo e naturalmente non ci si entra “dritti”, no bisogna inventarsi una manovra assurda per riuscire a girare la moto e lanciarla letteralmente giu’ dai gradini. Insomma una via crucis.
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Inizio a smontare la vecchia forcella. Radio accesa, pizza, birra e rutto libero. Arriva il momento di inserire il perno della forcella da 48. Il momento e’ solenne, mi sembra d’assistere al varo di una nave. Africanizzazione capitolo 1 prima. Ciak, Azione.
Tutto va per il meglio, finche non m’accorgo che il perno e’ corto. Parte un bestemmione che per un attimo fa tremare i vetri, la radio si spegne, la pizza si scioglie. Scende Dali’ dal cielo e mi dice : “Simo, hai fatto una cagata. “ io gli dico : “Salvador, c’hai ragione sono un cazzone.”

Ok, dopo questo incontro biblico, mi metto a ragionare. Il perno e’ corto, non so perche’ ma Motobau ha toppato. Forse questo e’ il perno per un’altra Africa, forse e’ il perno di un ciao, non lo so. Il diametro pero’ e’ giusto, anche la doppia filettatura.
C’e’ solo un po troppo spazio tra il cuscinetto e la piastra inferiore, secondo me’ si sono dimenticati di tornire sto mezzo cm. Devo portare il pezzo a modificare. Non posso permettermi di rispedirlo indietro.
Per accelerare i tempi mi serve un perno da far copiare. Non posso rimanere senza moto troppo a lungo. Fortunatamente trovo un ragazzo sul forum di Africa Twin che risponde immediatamente alla mia richiesta d’aiuto. In pochissimo mi ritrovo con la sua piastra in mano e la posso dare alla Oram da copiare.
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Arriva finalmente il momento in cui posso iniziare i lavori, e’ passata piu’ di una settimana prima d’avere il pezzo pronto per essere montato. nel frattempo e’ arrivato tutto l’occorrente dalla Touratech. Stavolta smonto tutto e non potro’ tornare indietro finche’ non avro’ finito i lavori.
La moto dev’essere Africanizzata prima del mio giro in Tunisia. Sopratutto non potra essere ancora in cantina il giorno della partenza del traghetto da Civitavecchia.
Ennesima sudata per portare la moto in cantina e via. Africanizzazione, capitolo 1 seconda. Ciak, Azione.
Tolgo la carena, smonto i fari, sfilo i cablaggi, libero i connettori, via la ruota, la forcella. Via tutto. Ho tutto l’avantreno nudo. Mi guardo attorno e spero vivamente di riuscire a rimontarla.
Mi sembra d’essere nella stanza in cui da bambino giocavo con il lego. Spargevo tutti i pezzi per terra e poi iniziavo il montaggio a ruota libera. Avanzava sempre qualche pezzo, il modello era sempre imperfetto. Ma funzionava. Speriamo non avanzi qualche vite fondamentale sulla moto. Speriamo che funzi anche la mia Africa.
Quando mi trovo in questa situazione mi viene anche il dubbio d’aver esagerato. Ok, con la fantasia ci so fare. ma poi? la manualita’ ? Mica sono un meccanico, qui ho svangato mezza moto. Speriamo, Speriamo.

Rieccomi al varo. Porgo dolcemente la piastra nel canotto, l’ho anche gia’ ingrassato. E’ pronto al serraggio. Merdddddddddddddaaaaaaaaaaaaaa. Il perno e’ ancora sbagliato. Stavolta l’errore e’ italiano. E’ ancora troppo corto. Ok, ok. Calma e sange freddo.
Metto il perno da parte, domani andro’ in Oram e me lo faccio modificare al volo. Deve farlo.

Proseguo con la customizzazione del cockpit. Il telaio che ho acquistato insieme alla carena e’ perfetto, tuttavia non mi piace. E’ troppo basso, e la strumentazione apparirebbe montata come se fosse un televisore.
No, voglio rifare tutto, costruire un castello in vero stile Africano. Il giorno successivo ho il perno in mano. Questa volta e’ perfetto. Inizio il lavoro con l’allumnio, passano de giorni e non riesco a finirlo. Il lavoro e’ molto piu’ complicato del previsto. Ricomincio il cablaggio, la ricerca del giusto passagio dei cavi acceleratore e frizione.
Qui ci perdo un sacco di tempo e mi viene lo sconforto. Ma se li monto male? Se cozzano con qualcosa e si rompono? Alla fine ci mettero’ quasi una settimana a ripristinare tutto l’avantreno.
E’ il momento dei led, tolte le spie originali devo ricablare tutte le lampadine di servizio. Cablo una spia standard della Touratech e al primo colpo funziona solo la luce dell’Olio. Ci perdo un’altra serata e alla fine parrebbe funzionare tutto.

E’ il momento di montare la carena. Taglio gli spigoli, preparo un paio di staffette per il montaggio a serbatoio. Lavoro finito.
Sono passati dieci giorni, ho lavorato costantemente dalle 19 all’ 1 di notte. Ora sembra tutto pronto per la prima prova. Guardo la moto per un bel po’.
E bellissima.
Ho fatto un bel lavoro. Ci vorrebbe una bella riverniciatina, ma il budget e’ esaurito.
La guardo, la riguardo, le sbavo dietro, vorrei provarla subito, ma da solo non ce la faccio a tirarla su dalle scale. Mi serve l’aiuto di qualcuno. La riguardo, mi cade l’occhio sulla porta. guardo la carena.
Mazza quant’e’ alta. Mazza, la strumentazione quant’e’ alta. Altissima. Mazza, mi sa che non ci passa dalla porta. All’inizio mentre penso questa cosa tra me e me sorrido. Seeee figurati se non ci passa dalla porta. Guardo bene. Il dubbio aumenta. Prendo il metro. Mancano un po’ di centimetri. La moto e’ alta 155 alla carena. La porta 148. Merda. Ok, prendero’ delle cinghie e comprimeremo la forcella. Mi devo fai aiutare da un amico, ma il film e’ finito, possiamo andare in scena.

Il sipario si alza : la moto e’ in autostrada, sono diretto a Firenze per fare un test offroad, per la prima dell’Africanizzazione. Ho una tanica da cinque litri legata dietro al sedere, devo testare le spie e dato che ci sono gia’ passato, meglio essere pronti.

Roncobilaccio, la moto scoppietta, scorreggia, puzza. Si ferma in mezzo alla galleria. Dietro di me un camion che mi evita per un pelo. La benza e’ finita. La spia non funziona, per inerzia raggiungo la piazzola d’emergenza. Si, Dali’ era un pazzo, il suo film non poteva che iniziare cosi’.
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Il sogno ….

Il sogno!!!

 

Il sentiero della paura. Ovvero : Come sporcarsi le mutande facendo enduro.

September 24th, 2007

 

stamattina sono davvero stanco, la sveglia non e’ proprio suonata. Dopo la girata semidevastante di ieri era impossibile prevedere l’ora in cui le mie gambe sarebbero state in grado di risollevare il mio dolce peso.
 

Ieri sera siamo arrivati a casa alle ventuno circa. Un freddo alllucinante. Quando mi sono tolto la maglietta per lanciarla tra la roba sporca ho pensato d’aver esaurito le riserve idriche del mio corpo. Ho ancora nel naso il ricordo del momento in cui : Strizzo la maglietta sul balcone e vengo assalito da una nuvola di vapore acido. L’odore fetente e’ coperto solo da quello ancora piu’ orrido dei miei stivali. Che schifo!
Doveva essere una giornata asciutta, se mai puo’ essere asciutta una giornata d’enduro. C’era il sole, nella zona di Firenze non piove da un po’. L’acqua ristagnante che fuoriusciva a garganella dai miei stivali era segno evidente che invece d’acqua ne avevamo trovata eccome. No, non puo’ essere asciutta una giornata d’enduro.
 Per colpa d’una Smart che settimana scorsa m’ha rifatto i connotati della targa non avevo il parafango anteriore, che sia stata questa la colpa dello stato della mia giacca?
No, penso che gran parte del merito sia mio. Adoro il fango, la scarsita’ d’acqua dovuta alla siccita dei giorni precedenti mi spinge a tuffarmi dentro qualsiasi pozza umida che mi trovo davanti. Risultato? Sono piu’ infangato, di una cinta senese.
 

E’ stato un giro tra amici, un tour alla ricerca di un percorso che ci portasse verso l’Emilia. Le armi a nostra disposizione erano le piu’ disparate : Un’Africa Twin, la mia. Un XR650, un KTM450, due DR-Z 400 e un’Aprilia RXV. Ok, ok, lo so, vi state domandando : “perche’ sei andato con quell’elefante in mezzo a quei mono incazzati?” Be’ qualcuno ci deve pur pensare a farli andar piano quei matti.
 A compendio delle moto, a nostra disposizione per compiere l’impresa solo qualche ricordo geografico di Lucia della zona di Pomino, le mappe militari di cui naturalmente a me e a Daniele ancora tanti segni sono sconusciuti, qualche GPS , il senso dell’orientamento da segugio di Enrico e il naso per la scoperta di sentieri di Alessandro.
Per immortalare l’evento ci saranno la macchina fotografica di Gino e la mia. Una Canon 5 mega pixel che m’e’ cascata in terra trecento volte, tra cui la prima, alla transappenninica di quest’anno la prima volta che la usai. Zio kannolo.
 

Come e quando ho sudato? Perche’ ci sto ripensando quando sto ancora con le gambe sotto le coperte? Be’ dopo pranzo. Incredibilmente consumato in un ristorante vero, e non con i classici panini spugnosi che solitamente accompagnano le nostre scorribande, abbiamo imboccato un sentiero che ad un certo punto diventava sempre piu’ stretto. Ale e Gino sono davanti, quando raggiungo le loro moto li vedo camminare tra le piante. Ma che cercano? Il sentiero s’interrompe. E’ franato. Bene dico io, si torna indietro. Manco per idea, i due s’inventano che il sentiero prosegue dopo la frana e quindi : “ udite udite la scavalcheremo. “
 Io faccio avanti e indietro almeno dieci volte. Qui si puo’ andare avanti. Ma indietro non si torna. La discesa finale di questo tratto franato e impraticabile a ritroso da una moto pesante come la mia. Ci vorrebbe come minimo qualcuno che la sappia portare, ma sarebbe molto meglio una gru.
Una frana e’ una frana maremmamaiala. Buche, rami, alberi e rocce sparse per un centinaio di metri come se fossero piuovute dal cielo.
Gia’, quando la montagna decide che il sentiero si deve interrompere lo fa nel peggiore dei modi. Li capisci quanto sei impotente al suo cospetto, li capisci che dovresti dargliela vinta. Dovrebbe aver ragione lei. Chi siamo noi, se non piccoli e indifesi uomini in sella ad altrettanti pezzi di ferro fumanti? Come possiamo decidere che in realta’ la montagna ci voleva semplicemente far divertire di piu’ mettendoci i bastoni tra le ruote?
Be’ possiamo eccome. Infatti passiamo e incredibile non dobbiamo neanche tornare indietro. La montagna ci ha graziato.
 

Risultato dopo tutte le peripezie per attraversare le frane? I chilometri percorsi sono stati un’ottantina. Di cui alcuni tratti scorrevoli e altri un po’ meno. Chilometro  percorsi in linea d’aria dal punto di partenza trenta.
 E’ passato un giorno, mi sono appena alzato e ho ancora ben chiaro in mente quei momenti. L’aver passato quella frana, aver trovato l’uscita del sentiero. Non siamo arrivati in Emilia, ci siamo fermati a San Godenzo. Di strada bisognava farne ancora molta. Bisognava trovarla. Ma come al solito alla fine non importa dove s’arriva, importa quanto ti sei goduto ogni metro e con chi. Chiedo ancora grazie alla montagna, che ci ha permesso di essere attraversata senza madarci a quel paese e l’avrebbe potuto fare, come e quando voleva. 
 

Oggi non staremo comunque senza moto, vogliamo raggiungere un ristornte nella zona di Greve in chianti facendo un po’ di fuoristrada. Siamo io e Lucia, non dovremo scoprire nulla. Abbiamo gia’ un percorso tracciato tempo fa che ci porta proprio dove vogliamo andare. Sono circa le undici quando ci mettiamo in sella. Io ho gia’ il bagaglio caricato sulla moto. Dopo pranzo, cotto dai vapori del vino e dei salumi toscani mi aspetta il viaggio di rientro a Milano. So che sara’ dura prendere l’autostrada dopo la mangiata che ci aspetta, ma il sacrificio di abbandonare tutto quel ben di dio sul tavolo del ristorante sarebbe sicuramente un fatica maggiore.
 Arrivati al cospetto del primo sterrato mi fermo. Faccio qualche foto al panorama. Siamo gia’ abbastanza in quota e il paesaggio brullo facilita la visuale. Mi tolgo le maniche della giacca, penso alla sudata di ieri e non voglio ripetere. Lucia ha sul suo GPS il percorso, io me lo ricordo vagamente. Lei mi dice di andare avanti e di fermarmi agli incroci. Procedo abbastanza lentamente, la zona penso sia molto frequentata dagli enduristi locali e non voglio rischiare un frontale.
 

Mi godo il posto, dopo la faticata di ieri non immaginavo di risalire in moto per fare un giretto anche oggi. Arrivo al cospetto di un rudere. Uno di quelli che fa tanto gola ai riccastri bisognosi di luoghi antichi da ristrutturare e chiudere. Rallento, ma non mi fermo. Il rudere non mi e’ nuovo, ma non vedo bivi. Sulla destra un sentiero sembra scendere. Mi sembra anche l’unico. Si lascia la montagna sulla destra e penetra nel bosco. Lo imbocco. Una serie di rocce e gradini con un bella pendenza mi fanno divertire da morire.
 La moto scende bene, il feeling con il freno posteriore e il grip e’ perfetto. Percorro circa quattrocento metri di dislivello e m’accorgo che Lucia non mi sta seguendo. Mi fermo e m’apposto come faccio di solito quando voglio fare una foto. Alla cazzo.
Non arriva. Il tratto che ho percorso non presentava problemi, non credo le sia successo nulla, sono molto piu’ propenso a pensare che si sia fermata perche’ questo non e’ il sentiero giusto. Mentre ho la macchina fotografica in mano, mentre ci bestemmio dietro perche’ dopo le trecento cadute non ne vuole sapere di funzionare quando voglio io, ma solo quando vuole lei arriva Lucia.
 

Arriva pianissimo. Non ha evidentemente problemi, ma il suo lento procedere e’ chiaro sintomo di strada sbagliata. “Abbiamo sbagliato vero? Si, dovevamo girare dietro la casa. Lo sapevo, quella casa mi diceva qualcosa, e quello che mi doveva dire piu’ d’ogni altra cosa era che ci dovevo girare attorno. “ Guardo la mappa militare, il sentiero e’ segnato. Pare si ricongiunga ad un’altro sentiero a circa un km e poi ad una traccia piu’ grande poco piu’ avanti. Guardo la pendenza e la larghezza della carreggiata. Sono ancora quel giusto mix che ci consente di tornare indietro agevolmente. Guardo Lucia e le dico : “Andiamo avanti e vediamo dove sfonda? OK. “ e inizia il sentiero. Il sentiero della Paura. Nella prossima mezz’ora pensero’ almeno trenta volte a quando ho pronunciato la parola : “Andiamo avanti?”. Questione di slinding doors, chissa’ magari non dovevamo farlo.
 Inizio la discesa, controllo insistentemente il GPS per accertarmi che la direzione sia quella indicata dalla mappa. Cosi’ e’. Il sentiero rimane largo circa un metro, le rocce si fanno via via piu’ smosse e la pendenza decisa ma mai eccessiva. Mi fermo nuovamente per fare delle foto, il luogo e’ veramente fantastico. Chiaramente la direzione non e’ quella che dovevamo tenere originariamente, ma e’ presto, male che vada torneremo sui nostri passi una volta raggiunto un sentiero conosciuto.
 

Arriva Lucia, le scatto un po’ di foto mentre riprende fiato poi riparto. Il tracciato si restringe, quando volge ad est diventa un sentiero single track. Ci sono molti rami tagliati, secchi e non. Il sentiero e’ stato ripulito, la terra e i sassi segnano molto bene la direzione. Quando percorro un paio di centinaia di metri m’accorgo che sono in una posizione in cui girare sarebbe impossibile. La mia bicilindrica supera abbondantemente lo spazio che c’e’ tra la montagna e lo strapiombo verso valle. Proseguiamo e il sentiero diventa molto piu’ tencnico, la traccia e’ scavata e piena di pietre taglienti. Dopo una leggera curva mi fermo davanti ad una discesa ripidissima di almeno cento metri di lunghezza. Aspetto Lucia, le foto abbondano. Lei si toglie il casco, e’ bella rossa. Il bosco non fa trafilare un filo d’aria. La luce e’ rarefatta e i rumori della strada decisamente lontani. La guardo e cerco nei suoi occhi la conferma alla voglia di proseguire. Cosi’ e’.
 Mi lancio nella dicesona, ci sono un paio di bei gradini che mi fanno sobbalzare per bene. Ringrazio ad ogni pietra i ragazzi che m’hanno regalato gli ammo. Senza di loro avrei gia’ sfracellato tutt’e cose! Rallento fino quasi a fermarmi e procedo aiutandomi con le gambe. I solchi sono profondi, il peso della moto la rende difficile da frenare e i sassi smossi non aiutano. Alla mia destra il bosco. Non si vede nient’altro. Arrivo alla fine del tratto ripido e la strada fa ancora una curva. Voglio scendere dalla moto per tornare indeitro a piedi a dare una mano a Lucia, ma la contropendenza rende impossibile mettere il cavalletto. Riesco alla fine ad appoggiare la moto su un fianco addosso ad un roccia. Ora che ho trovato il posto per fermarmi arriva lei. Si toglie il casco e mi dice : “Mahhh dovveehhh Siamooo???”. Io guardo il GPS, la traccia che sto salvando mi indica chiaramente che abbiamo lasciato il sentiero tracciato e che stiamo tagliando nel nulla verso quello parallelo. Le dico : “Tutto Ok. Siamo sulla giusta strada.” e ripartiamo.
 

Ancora qualche centinaio di metri in piano e poi un’altra ripida discesa tutta di sassi smossi e gradoni. A valle un canalone e un tornante a destra. Arrivo lentissimo, tento di fare il tornante ma la moto non gira, e’ troppo stretto. Dico a Lucia d’aspettare, provo a tirare la moto a mano ma non si muove d’un millimetro. Scende lei a darmi una mano e la mettiamo in direzione. Dopo questa discesona ci siamo reimmessi sul sentiero mappato. Mentre guardo Lucia che scende a gattoni non posso fare a meno di pensare che stavolta la cazzata l’abbiamo fatta e grossa. Questo tornante e questa salita sono impossibili da percorrere con la mia moto. Mi torna in mente la frana di ieri, eravamo in sei, in qualche modo forse la moto l’avremmo rispinta su da quel buco che vedevo insormontabile. Mi torna in mente che la montagna ci aveva graziato una volta. Mica lo fara’ anche una seconda.
 Qui ci sono un centinaio di metri di salita bella tosta e come se non bastasse un tornante dove mi ci vuole una piattaforma girevole per far roteare la moto e un canalone dove ho dei seri dubbi che la mia moto ci passi. Arriva Lucia, mentre pensavo al fatto che se questo sentiero per qualche motivo s’interrompesse sarebbero cazzi amari le faccio un centinaio di foto sorridente.
 

Qui penso a tutti gli amici che mi dicono che l’Enduro, quello vero si fa con le moto leggere. Penso a tutti quegli enduristi che quando ti vedono in sella ad una bicilindrica infangato fino ai denti pensano che tu ti sia spruzzato lo spray “Eau de fangh” che si usa su cayenne per farlo sembrare un fuoristrada. Penso a quante volte m’hanno dato del coglione. Penso a tutte le volte che io glio ho detto che i coglioni erano loro, che io quando esco da una mulattiera posso prendere l’autostrada. Che io col mio bicilindrico non faccio fuoristrada impegnativo perche’ non m’interessa.
Penso che … merda … forse avevano ragione loro. Sono un cazzone.
 Ma che mezzo ci potrebbe mai arrivare qui per tirare fuori dai casini un pachiderma da oltre 200 kg? Pensa se dovessi incontrare sulla mia strada un 125 2T , che faccia farebbe il suo pilota?. Gli potrei sempre dire : “Amico, su questa mulattiera non c’e’ posto per due, vince il piu’ grosso, come in mare.
Proseguiamo, il bosco e’ fittissimo, mi fermo a fare delle foto con la moto sul cavalletto. Quando mi giro per fare delle foto a Lucia la moto cade sul fianco e mi spinge come se mi desse un calcio in culo nel dirupo. Lucia quando mi vede vivo in cerca d’un appiglio per tornare sul sentiero caccia una risata che mi fa capire d’averle fatto vivere una scena degna di mister Bean.
 

Fortunatamente la moto non e’ caduta dietro di me ed e’ rimasta sul sentiero. Sarebbe stata la fine. Tiriamo la moto in piedi e quando la accendo sono in riserva. Bene, ci manca solo che ora finisce la benza e se avevo qualche dubbio d’aver fatto la cazzata me lo sono tolto. Proseguiamo finche’ non ricomincia la discesa. Davvero impegnativa. Quando arrivo a valle di quest’ultima mi affaccio ad una vista fenomenale. Il bosco si apre sotto di noi e m’accorgo che attorno non c’e’ davvero nulla. Mi giro e stavolta lo dico io a Lucia : “Ma dove siamo finiti. “ Be’ se questo e’ il posto dove deve morire la mia Africa Twin non si puo’ certo lamentare. E’ meraviglioso, ma la sensazione d’aver fatto la cagata del secolo e’ sempre piu’ forte. Il GPS mi dice che siamo nella direzione corretta. La linea tratteggiata su cui sta la freccia che indica na nostra posizione e’ insindacabilmente quella che indica un sentiero. Non ci sono segni strani, non ci sono simboli di ambigua interpretazione. E’ un cazzo di sentiero, e ci deve portare da qualche parte. Deve.
 Il cuore batte a mille. La vista della valle e’ stata da una parte affascinante ma dall’altra m’ha messo una paura cane. Ieri abbiamo incotrato diversi alberi caduti sui sentieri che ne sbarravano il percorso, incontrarne uno ora vorrebbe dire ko tecnico. Vorrebbe dire palate di merda sulle palle.
Il Single track si fa sabbioso, in alcuni punti e’ molto vicino al dirupo. La paura sale, l’adrenalina mette concentrazione ma m’abbassa la solgia di azzardo che spesso ti fa passare indenne dei punti critici. Lucia mi segue, penso alla scena da film comico in bianco e nero vissuta qualche minuto fa e mi tiro su. Ce la faremo. Accarezzo il plexiglass GIVI che sovrasta la mia strumentazione. Penso che un cupolino maggiorato tipicamente autostradale qui sia un po’ fuori luogo.  Penso che qui un’Africa non ci sia mai passata. Forse hanno fatto bene. Ma se ne esco zio kannone. Se ne esco.
 

Altra dscesa con curva a gomito, il fondo si fa piu’ semplice. Sullo zoom a 100 metri che ho impostato sul palmare vedo il nostro sentiero che s’incrocia con una strada piu’ grossa. La visione di questi pixel sul mio piccolo schermo mi fanno trepidare. Accellero leggermente. Non penso neanche piu’ al fatto che l’indicatore della benza e’ acceso da un po’. Facciamo un’altra piccola discesa a gradoni, il sentiero s’allarga. Sulla sinistra vedo una costruzione. Una strada ghiaiosa. E’ l’uscita.
  Ce l’abbiamo fatta, siamo usciti dalla cacca, riportero’ la mia Africona a casa.
 Tornera’ a Milano solcando un’autostrada, dopo esser stato ad un pelo dal doverla abbandonare in un luogo sperduto per le montagne del Chianti.
Ora che so’ come “sfonda” questo sentiero penso a come sarebbe stato diverso affrontato con una moto leggera, a come l’avrei sentito piu’ banale, seppur tecnico e impegnativo. Non avrei avuto la paura che ancora devo smaltire, la pelle d’oca che mi sento addosso non l’avrei provata, non mi sarei sentito un coglione e forse avrei ancora le mutande pulite. Ma cos’e’ tutto questo in confronto alla sensazione di vittoria che mi porto addosso in questo momento?