Con le ruote all’aria. 1500 km e un semaforo.

September 18th, 2007

Sono a Milano, il contachilometri parziale del GPS segna millecinquecento.
Quella fantastica opera d’arte d’ingegneria elettronica che mi porto sempre appresso, porta ancora i segni di un fantastico week-end passato nella zona montuosa di Civitavecchia.
Velocita’ media in movimento settantacinque, una media totale che tocca poco meno di cinquanta chilometri all’ora.

Il cartellino della velocita’ massima, indica che ho strappato un centotrentaquattro da record. Una velocita’ tale che parla da sola. Sono andato a divertirmi, senza correre, senza cercare l’ebrezza del viaggio nel tempo dovuto al raggiungimento della velocita’ della luce. Chissa’, magari qualcuno serpentando tra le macchine tra le moto, le bici  e i camion ce la fara’. A me non interessa. Almeno non in moto, rischiando la vita.

Poi, parliamoci chiaramente, la mia moto non me lo consente. Forse la mia povera e vecchia Africa Twin reggerebbe medie superiori. Ne sono certo.  Ma io non credo sia stata fatta per questo. Non per la velocita’, non per le corse. Certo c’e’ anche da dire che la mia indole da turista non digerisce l’idea di medie record da casello a casello. Non lo facevo guando guidavo un potente cbr 900 che di cavalli ne aveva piu’ del triplo di questa.

Gia’ allora come recentemente m’ha ricrodato una casa motociclistica, facevo un’uso non consono di una moto, gia’ allora guidavo un fireblade come ora guido un’Africa Twin. Per il puro piacere di gustarmi ogni attimo di un week-end in strada, per il puro godimento dato dal leggero vento che mi colpisce la faccia a visiera semiaperta.
L’idea di fuggire dal posto in cui mi trovo, dal vivere un trasferimento in maniera poco rilassata, l’idea di perdere la sensazione d’essere ricettivo nei confronti di cio’ che mi circonda trascende la mia filosofia di utilizzo della moto.

Vado piano, sempre. Forse, utilizzo questa mia teoria con gli amici che la moto la sanno usare davvero. La utilizzo come scusa quando regolarmente si fanno trovare con la sigaretta in bocca dopo l’ennesima risalita di qualche passo alpino : “T’abbiamo dovuto aspettare due ore. Sei sempre l’ultimo. Ma sei salito coi freni tirati? ecc. ecc.” Gia’, capita. Non i freni, ma di far guadagnare la  vista di un bel panorama a qualche amico mentre io mi godo la lenta risalita. Mi godo certi tratti in moto gustando il piacere di una guida che fa di me un motociclista che ha lasciato a casa la voglia d’arrivare. Ho lasciato a casa la meta, devo arrivare dove non si sa, in quanto tempo men che meno.

Sono le 19 circa, lavo la moto al solito lavaggio con quell’usuale gesto che sancisce la fine del week-end. I soliti gettoni, la solita pozza di fango sotto la moto che per me’ non vuol dire  lavar via il fango e la polvere, ma come mi piace invece pensare, lavo via tutto per far posto ad altro. Ad altre esperienze. Ad altre giornate come quella che ho appena vissuto.

Con la moto ancora gocciolante lascio l’area di servizio. Le gocce d’acqua scorrono lungo il prabrezza e mi s’infilano sulle guance esposte al vento.
Fa caldo, questa e’ una sensazione che vale un lavaggio. Sono in circonvallazione, percorro la preferenziale, a Milano si puo’. Non c’e’ traffico, non ci sono incroci. Mi sorpassa un ragazzo su una Husqvarna da enduro. Un seiedieci. non ne avevo mai viste qui in citta’. E’ tutta pulita tranne la targa. Un maestro nell’arte del cesello non avrebbe fatto di meglio nel riuscire a ritagliare il fango sul piccolo quadrato come invece ha fatto lui. E’ Rosso, mi guarda. Io lo guardo. Accellera in folle. Bel motore il suo. Molto silenzioso il mio. Che belli entrambe con le loro differenze sonorita’. Non sono certo se lui veda in me un nemico o per il semplice fatto che indosso un casco da enduro sporco come un sacco dell’immondizia veda in me una sorta di fratello motociclista. Semaforo verde, lui snocciola le marce come una saetta impaurita. Si volta indietro. M’ha sverniciato. Ha vinto. Io lo guardo, hai vinto. Non siamo fratelli. Siamo nemici. Contento lui.
Semaforo rosso, il pilotone sulla moto da tacchinaggio con la targa camuffata e’ sfuggito alla mia vista. Sento solo da lontano il frullare cattivo del suo motore. A me manca una svolta per arrivare a casa.

Penso a quanto siamo differenti. Finche’ l’unica cosa che mi vien da pensare e’ come sono finito in terra. La moto a dieci metri da dove si trovano le mie gambe. Io sono letteralmente seduto sull’asfalto, li, dove trenta secondi prima aveva sgommato l’endurista di citta’. Il motore della mia africa frulla ancora, un leggero fumo esce dallo scarico.

La posteriore gira su se stessa in  cerca l’asfalto. Non lo trova. Gira in maniera tremolante. Vorrebbe fermarsi, vorrebbe trovare il grip che qualcuno le ha improvvisamente tolto. In un secondo ho quattro persone attorno. Capisco che una smart m’ha tamponato. la vedo dietro la mia schiena.

La gente attorno m’assilla di domande : “Come stai? Andavi forte? Che hai fatto? “ io guardo solo la ruota della mia Africa che gira. Sto bene, lo sento. Mi pare. Ma quella ruota che gira a vuoto con la moto stesa inerte sul fianco sinistro imi mette un’angoscia terribile.
Mi sembra di vivere il lavaggio del cervello subito da Alex in Arancia meccanica. Mi alzo.

Corro da lei. La spengo.

Mi tocco, sono tutto intero. Mi risiedo quando arriva il conducente della smart. Un ragazzo. Gli occhiali da sole non se li toglie. Non so che occhi abbia. Gli dico solo che sto bene. Lui forse me l’ha chiesto.
Due ragazzi a piedi mi guardano attoniti. “Ero fermo, dico io. Immobile. Piu’ lento di come mi piace muovermi di solito.” Chiamano l’ambulanza che arriva in un battibaleno.
Chiedo ad un signore di spostarmi la moto sul marciapiede. Lentamente, senza farle male. Quando torna le chiedo come sta. Lui :” Non s’e’ accesa. Il manubrio storto. “. “Amico, ma l’hai riacceso il pulsante di massa? “ Chiaramente no.

Mi rassereno subito, ma mi trafigge comunque il cuore la storia del manubrio. Ho percorso millecinquencento chilometri nel week-end, duecento di questi d’enduro. Nessun problema, ne a me ne alla mia moto. Ora sono a casa, nella mia citta’, anzi sono praticamente sotto casa e un ragazzo con una smart m’ha investito. Ironia della sorte.

Sono in ospedale. Legato su una barella. Io lo sento che non ho nulla. Insomma se mi fossi fatto realmente male penso che lo capirei e meno male cosi’ non e’. Un’infermiera tenta di spogliarmi. Chiaramente le dico di evitare di tagliarmi tutti i vestiti. Inizia con gli stivali. Mi prende subito un colpo. Non per il dolore. Non perche’ la gamba mi abbia provocato il benche’ minimo dolore. No il colpo mi prende perche’ quest’infermiera per quando gentile ha tentato di togliermi uno stivale da enduro perfettamente allacciaio e tirato. Dubito che sarebbe mai riuscita nell’impresa di togliermi quello stivale senza dover ricorrere all’amputazione dell’arto o in maniera piu’ semplice slacciandoli.

Questo suo gesto mi fa pensare a cosa m’avrebbe potuto fare se veramente la gamba mi avesse fatto male. Chiama rinforzi. Io alzo la schiena e le faccio vedere come si fa’. Lei mi dice di stare giu’. “ma signora, sto bene.”  “ E lei come fa a saperlo. Non e’ un medico.” gia’ ma la gamba e’ la mia. Cazzarola.
Mi sento trattato come un bambino. Inerme.

Arriva l’ambulanziere capo. Quello che m’ha caricato. Mi dice : “ma da dove arrivi dal set di guerre stellari? “. “Ehm no sai, sono appena arrivato da un giro d’enduro.”. “ammazza come sei bardato. “ e io : “Be’ meno male no? che dici?”.
Mi togono la giacca, ho l’armatura Dainese che m’avvolge la schiena e il Torace. Quando me la tolgono e la sbattono per terra esce una nube di polvere di cui loro non si danno spiegazione. Temo vogliano prendere un’estintore per spegnere quello che pensano possa trattarsi d’un principio d’incendio.

Per togliermi i pantaloni non fanno molta fatica. Quando vedono i tutori alle ginocchia non credono ai loro occhi. “E questi? hai problemi alle ginocchia? “ “No, sono tutori preventivi. Limitano i movimenti involontari del ginocchio. Ecco vede una cosa che non deve fare e’ ruotarmi il piede per tentare di togliermi la ginocchiera, altrimenti mi si spostano anche i denti. “ .“Ah!, Voi motociclisti di solito andate in giro in maglietta e ciabatte. se fossero tutti come te !“ Dopo questa massima che ahime’ nasconde un velo di realta’ mi rimettono sul lettino. Comodo. “Ma una sedia? Sto bene”. “Finche’ non viene riclassificato lei non si puo’ muovere.”

Mi sembra d’essere in matrix. la Riclassificazione, quella procedura dal gusto inquisitorio dove decideranno cosa fare di cio’ che rimane di me’.
Arriva un’infermiera. M’aggredisce : “E tutta questa roba? Cosa ne facciamo ?” “In che senso?” faccio io. “Nel senso che dove la mettiamo? non puo’ venire a farsela portar via?” Si riferisce al sacco d’immondizia dove hanno messo le mie centinaia di euri di attrezzatura da enduro. Protezioni, giacca, casco. La signora mette tutto su una sedia a rotelle, sotto la valigia che era caricata dietro alla mia moto e che contenendo i ricambi non e’ certo leggera. Il casco veiene appeso all’asta che solitamente regge le flebo. Che roba triste.

Mi parcheggiano questo manichino di roba a fianco. Mi intimano di non lasciarla in giro. Nessuno accenna al fatto che questa roba m’ha salvato da contusioni ed escoriazioni. Nessuno che possa pensare al fatto che non tutti hanno la voglia di spaventare le famiglie prima del dovuto solo perche’ non sanno dove parcheggiare i vestiti.
L’attesa si prolunga. Sento arrivare delle grida dall’altra ala del pronto soccorso. Esce un ragazzo con le mani tra i capelli. Grida che suo fratello e’ morto.
E’ una scena che blocca la circolazione dell’aria all’interno della sala d’attesa. Tutti i respiri si bloccano nello stesso istante. Il ragazzo aveva ventidue anni. Terribile.
Chiamano il mio nome, mi vien voglia di tornare a casa, dopo aver sentito quello che e’ successo a quel ragazzo mi sembra di rubare del tempo ai dottori.

Chiedo all’infermiera se vuole che mi spinga da solo appresso il manichino della roba. lei mi risponde scocciata.: “ lo porto io, ma poi lo lasciamo dentro.”
Entro per la procedura di riqualificazione. Non ci sono essere extraterrestri mandati da chissa qualche forma di vita ad accogliermi, ma un simpatico medico. Mi chiede cosa sia successo e l’infermiere intanto mi dice :” Ma sta roba dove la lasciamo? “Chiaramente si riferisce al mio sacco di roba. Prima che riesca a rispondere sono in sala radiografie.
mentre l’addetto mi rigira come una salame e mi flasha con le radiazioni penso alla mia moto sotto l’acqua. Fuori piove. Che palle. Voglio andare a riprenderla piu’ in fretta che posso.
“Monticelli “ Chiama l’infermiere, entro nella stanza. Non ho nulla. “Cortesemente, porti via tutta la sua roba”.
Io :”Volentieri dottore, non prima d’essermela rimessa per andare a recuperare la mia moto”.

Esco dal pronto soccorso. diluvia. chiamo un taxi. Mi faccio portare al cospetto della mia Africa. Una piccola ammaccatura al serbatoio. la targa un po’ piegata. parte senza problemi.
Ora posso tornare a casa. Non prima d’essermi seduto sul marciapiede. Guardando la pioggia che cade sulla mia moto. Cercando in me la consapevolezza d’essere stato fortunato perche’ domani saro’ ancora in moto sulla mia Africa.

 

Elba Tour – EccezzzZZZzzziunale veramente!!

September 11th, 2007

Ore 17.23, Piombino, primi di Settembre, una splendida giornata di sole.
Dopo trecentocinquanta chilometri, la discografia completa di Vasco e un paio di redbull siamo qui, a cinquecento metri dal porto, fermi alla rotonda dove c’e’ un panettiere che come direbbe mia madre : “Ah! Sono quelli di una volta.” Quelli che quando sei a passeggio ti attirano con il profumo della pizza. Quelli che a trecento metri dalla vetrina ti hanno gia’ stregato con l’aroma del pane appena sfornato.
Ma non ci siamo fermati per mangiare, anche se la tentazione e’ fortissima. No, spengo l’iPod e mi scapicollo dentro la tanto agognata bilglietteria. Ci siamo fermati per fare un biglietto di sola andata per l’Elba.
Siamo partiti senza prenotazioni, senza posto, ne per noi e ne tantomeno per la moto.
Ma siamo a settembre, che problemi vuoi che ci siano per due moto e due cristiani. Brutti, sporchi, perdipiu’ motociclisti, ma solo due. No, che problema vuoi che ci sia.

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Ho un sacco a pelo, la tenda e i ricambi per la moto. Assieme a me Carlo col suo pulitissimo Transalp che affiancato alla mia Africa Twin quasi ventenne, sembra una bimba. Lei di un grigio metallizzato che non mette il minimo dubbio in merito alla giovinezza della moto. La mia : bianca, rossa e blu. Accostamenti di colori come non se ne vedono da anni. Appunto venti.
Tra le due moto sembra esserci quel rapporto di riverenza e rispetto che c’e’ tra padre e figlio. Un rapporto di reciproca consapevolezza che il passato e’ qualcosa da cui dobbiamo sempre e comunque imparare.
Parcheggiate sul cavaletto laterale fronte agenzia viaggi sembrano entrambe vogliose di destinazioni senza ritorno.
Noi ci limitiamo ad un biglietto per una traghettata che durera’ solo un’ora. L’isola d’Elba, un fazzoletto di terra nostrana che in pochi chilometri di costa confina tanti panorami da favola e tantissimi sentieri dove sporcare le nostre motociclette.

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Ore 17:24, tra me e l’addetta ai biglietti c’e’ una famiglia intera di turisti Italiani.
Stanno discutendo animatamente tra loro, mi sembra di capire che abbiano dei problemi con la loro prenotazione. Scartabellano la busta della Moby con dentro il biglietto e lo sventolano sotto il naso della povera signora al computer cercando di farsi cambiare la prenotazione. Lei risponde cortesemente : “Non c’e’ posto, non c’e’ posto”. Questi non ne voglio sapere di capire, e tergiversano.
La signora mi guarda con lo sguardo disperato e io le faccio segno alzando le dita tra le loro teste indicandole : “ due biglietti “ supportato dal labbiale.
La signora coglie l’occasione per scrollarsi di dosso la famiglia e mi dice che c’e’ il primo traghetto tra 6 minuti. Stampa in fretta e furia ma ahime’ non si dimentica di farci pagare. Sessantadue euro. Che mazzata.

Ore 17:25, sono sulla moto col motore acceso e la busta dei biglietti tra i denti. Carlo mi segue.
Facciamo due curve e siamo in vista degli imbarchi. Avvisto da lontano la nave con la prua completamente alzata. Spalanco il gas e sprigiono sull’asfalto i quarantotto cavalli della mia RD03.

Ore 17:28, siamo ancora in tempo. Con due belle gocce di sudore sotto agli occhi arriviamo davanti all’ingresso della nave, quando l’addetto al carico ci guarda malissimo. “Correeetteee, sempre in ritardo voi motociclisti”. Iniziamo bene. Non ce lo facciamo dire due volte, da come m’ha guardato temo veramente ci voglia lasciare a terra e saliamo.

Ore 18:00, il suono della sirena sancisce la chiusura dei portelli, si parte. Ce l’abbiamo fatta. Sono comodamente seduto per terra, con gli stivali da enduro aperti e il casco che mi fa da schienale quando sento la nave muoversi.

E’ la seconda volta che la mia Africa prende un traghetto. La volta precedente eravamo tra Helsinki e Tallin, di ritorno da Murmansk. Da allora e’ passato circa un mese. Il mare Italiano e’ completamente differente da quello visto nel nord Europa, per non parlare del cielo. Blu e caldo, confrontato con quello nuvoloso e umido scandinavo.

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Per quanto mi piacciano i viaggi, per quanto mi piaccia allontanarmi da casa e dall’Italia devo ammattere che il fascino del nostro paese non ha eguali. Muovermi nella nostra terra apprezzandone la fantasia, la storia, la varieta’ di panorami e di gusti mi rende orgoglioso d’essere Italiano. Poi, per tanti versi me ne vanto poco, anzi la voglia di non tornare a casa durante un viaggio m’assale spesso, ma questa e’ tutta un’altra storia.
Faccio una telefonata a Lucia che questa volta non ci raggiungera’ in sella alla sua moto, dato che sara’ acompagnata da sua madre. Questo week-end, ne approfittera’ per farsi trasportare sulla mia motocicletta ed apprezzare a pieno le doti d’enduro da famiglia della mia Africona. Ci raggiungera’ domani, io e Carlo questa notte la passeremo in tenda.

Sbarchiamo in perfetto orario. Siamo al tramonto. Ci spostiamo verso Capoliveri, dove ci aspetta il campeggio. Mi piace mettere le ruote sulle strade sterrate, ma come disdegnare le fantastiche curve e i tornanti a picco sul mare dell’Elba se pur asfaltati. Facciamo pochissimi chilometri in linea retta e arriviamo alla bellissima spiaggia dell’Innamorata. Qui cerco uno dei sentieri che vorrei percorrere domani e a ridosso della montagna mi pare di vederlo. Sta calando il buio, vorrei fare ancora qualche curva, ma dobbiamo montare la tenda. Non ricordo quando l’ho chiusa l’ultima volta, ma certo non sono stato a ripulirla piu’ di tanto. Per quanto ne so potrebbe esserci ancora dentro un lemmings Norvegese. Meglio sfruttare la luce del tramonto prima di ritrovarselo nel sacco a pelo. Dopo uno sguardo al panorama torniamo verso Morcone. Lucia che ha la casa qui mi ha detto che il campeggio si trova a picco sotto casa sua. Io ci guardo ma non vedo nulla. Bo! vedo una strada sterrata. Inconsciamente lo so che non puo’ certo portare al campeggio. Ma il tentativo vale qualche centinaio di metri d’enduro Elbano prima della cena. Perche’ privarsene?
Chiaramente la stradina porta a casa di qualcuno. Facciamo una silenziosa inversione e torniamo sulla strada principale. Ormai la luce del tramonto e’ diventata il buio della notte. Dopo un paio di ricerche senza successo troviamo la direzione del campeggio.
Appena mettiamo le ruote nel camping mi rendo conto che e’ pieno. Guardo Carlo che penso stia cominciando ad aver fame oltre che il culo quadrato e sentire la voglia di una doccia. Lui contraccambia il mio sguardo facendosi il segno della croce. Speriamo ci sia posto.
Il gestore ci accoglie a braccia aperte e ci fa vedere il luogo dove potremo montare la tenda. Facciamo pochi passi e siamo difronte ad una piazzola brecciolosa che ha l’aria d’essere dura come la ghisa. Guardo il gestore con lo sguardo di Arnold sperando che s’impietosisca. Lui capisce al volo. Sorride. Io penso e’ fatta, ci porta davanti ad un prato morbido ed accogliete. Lui allarga il sorriso : “Mi dispiace. c’e’ solo questo. “ Merda, un’incudine caduta dalla montagna sulla testa m’avrebbe fatto meno male. Vabbe! Non perdiamo tempo, ci mettiamo a montare pregustandoci una “grassa cena”.

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Sveglia alle otto, non si puo’ perdere tempo. Sistemo i ricambi sul portapacchi posteriore e partiamo. Ci dirigiamo subito verso la prima strada sterrata che sale dalla spiaggia dell’Innamorata. Chiaramente quella che avevo visto ieri sera era la strada sbagliata. Sara’ stata la fatica, sara’ stata la voglia di sedermi con le gambe sotto ad un tavolo carico di frutti di mare. Sara’ stata la voglia di andare in moto, ma quel sentiero a picco sul mare non era certo la strada bianca che mi ricordavo.

Ed eccomi colpito da un flashback. E’ passato un’anno. Il clima era lo stesso, il cielo blu, le nuvole assenti. Il profumo dei pini e del finocchio. La cena a base di pesce, il rumore dei gabbiani. Anche il colore della sterrata che sto percorrendo me lo ricordo bene, quel forte contrasto delle rocce rosse con la vegetazione circostante. Cosa non mi torna? ah! Si, la scorsa volta cavalcavo una moto differente. Un’anno fa portai qui la mia Superenduro nuova di zecca.

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All’epoca il suo contachilometri sengava giusto la distanza tra qui e Firenze. Sospiro come ricordando un’amore adolescenziale. Oggi sono qui con un’altro amore, molto piu’ maturo. Non la moto. Quella ci vuol poco a giudicarla matura, e’ quasi d’epoca. No, maturo l’amore. Un’amore pensato, sofferto a causa della precendente separazione, ma poi vissuto intensamente. Un’amore nato tre mesi fa, sulle ceneri di una costosissima KTM. Un colpo di fulmine scoccato tra me e quest’ Africa twin che m’ha portato in cima all’europa.
Guardo il contachilometri, segna 54.000 Km. Quasi ventimila in piu’ di quando la presi qualche mese fa. Chissa quanti chilometri ha realmente. Quanto picchierei quel macellaio che le ha quasi sicuramente scalato la vita. Mi sembra un’assassinio bello e buono. Privare una moto della gloria dei suoi chilometri. Privare questa vent’enne di migliaia di chilometri d’esperienze. Io sulla mia moto non lo farei mai. Attaccare un pistolino al cavo del contachilometri per farlo tornare indietro nel tempo mi sembrerebbe come cancellare il ricordo della bellissima strada che sto percorrendo in questo momento. le pietr che sto evitando, la vista del mare, la lepre che m’ha appena tagliato la strada. Stronza.
Gia’ e’ passato un’anno e ora mi trovo per la prima volta a percorrere le stesse strade che con il cuore in mano avevo solcato con la mia prima moto nuova.
Penso subito che in questi primi chilometri di “confronto” emergeranno tutte quelle caratteristiche ciclistiche che facevano di quella KTM una gran moto da enduro.
Mentre seguo Carlo con gli occhi m’accogo di una curva con un muretto di mattoni. M’assale fortissimo il ricordo. Imposto questa curva con chiaro in mente il momento in cui la feci con la SE. La moto s’inserisce in maniera precisa. Un colpo d’accelleratore e automaticamente chiudo la curva. Da quel colpo di gas saranno usciti un quinto dei cavalli che avrei sprigionato con la SE, ma la libidine e’ inversamente proporzionale alla potenza. Improvvisamente m’accorgo d’aver una mandibola bloccata in posizione sorriso. Curva dopo curva mi diverto sempre di piu’. Non era certo la prima uscita enduristica con questa Honda, ma questa ha indiscutibilmente un fascino particolare. Quando iniziamo il primo tratto un po’ piu’ tecnico mi preparo al peggio : ”Ecco adesso verro assalito dal ricordo della KTM, mi tirero’ delle mazzate sulle palle come solo tafazzi sapeva fare.”. Prendo il primo dosso e la moto salta precisa. Atterra appoggiandosi senza il minimo sbacchettamento. Le forcelle aiutate dalle molle che m’hanno regalato gli amici rispondono in maniera sublime. Mi ridono anche le chiappe.

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Da questo momento smetto di pensare a questo pseudo confronto, a questa sorta di comparativa degna d’una rivista del settore e a godermi il viaggio con la mia nuova amata. Penso comunque tra me e me a quanto sarebbe bello fare un prova comparativa seria tra una moto moderna e una moto ciclisticamente e motoristicamente perfetta come la mia Africa Twin.
Carlo mi segue senza problemi, la sua Transalp e’ senza le gomme tassellate. Ma si muove agevolmente.
In un paio d’ore percorriamo circa cinqanta km e raggiungiamo Lacona. Qui ci sono delle bellissime tagliafuoco. Provo a lanciarmi su una di queste , ho voglia d’esplorare un tratto che la scorsa volta non avevo percorso. Come un trattore risalgo la pista. lentamente, sentendo il motore e le gomme scalciare le pietre. La moto prosegue dirtta come un fuso. Mi domando come cavolo faccia. Io non sono certo l’artefice di questa facilita’ d’uso. Io in fuoristrada ci vado da pochissimo. Mi diverto m’appassiona, ma non sono certo bravo. Eppure sta moto sembra muoversi da sola, con l’accelleratore ad un quarto di giro, la prima inserita risalgo senza problemi questa bella tagliafuoco. Faccio un giro nel prato. Guardo Carlo a valle. E’ piccolo, piccolo. La salita era bella ripida e voltandomi indietro mi stupisco della semplicita’ con cui sono salito. Controllo la data, siamo nel 2007 non siamo tornati indietro nel tempo. Questa moto ha veramente vent’anni. Scendo per falre una foto. La guardo con quel sorriso da ebete che ormai non riesco piu’ a farmi andar via. Lei sembra strizzarmi un faro come per rispondermi. Che si stia comportando cosi’ perche’ sente odor di sfida? Be’ mia cara. Smetti pure perche’ hai vinto.

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L’isola e’ piena di ciclisti. I sentieri che ci fanno impazzire in moto sono un paradiso anche per gli amanti della mountain bike. Sfortunatamente oggi non siamo molto compatibili. Sembra che i ciclisti piu’ incazzosi e fondamentalisti nei confronti di chi rispetta la natura seppur in sella ad una moto siano tutti qui. Di solito enduristi e ciclisti si rispettano, oggi devo essere particolarmente sfortunata. Anche quando mi fermo per affrontare lentamente le curve cieche mi prendo sistematicamente dello stronzo. Chiaramente stiamo percorrendo tutte strade aperte alla circolazione, ma certa gente evidentemente ci vede come dei teppisti quand’anche ci stiamo muovendo in regola.
Decidiamo quindi di prendere un bellissimo sentiero lastricato che ci porta nei pressi di porto Azzurro. Questo tracciato in quota e’ particolarmente indicato a chi soffree di problemi di circolazione. Le rocce e i gradini fanno tremare talmente tanto le nostre moto da essere un vero e proprio test di resistenza. Chiaramente qui i ciclisti non ci vengono. Temo che percorrere questo tratto in bici sia impossibile. Per me’ e’ una vera goduria. La moto viaggia come sospesa sulle rocce. Le mie ruote corrono in un binario come quello dei tram Milanesi, mi guida lungo il sentiero facendomi provare l’ebrezza del galleggiamento. Che spettacolo.

Torniamo a valle, prendiamo la via del ritorno. Ci aspetta Lucia. E’ appena arrivata con sua madre. Appena la vedo mi chiede subito : “Com’e’ andata l’Africona? “. Non c’e’ bisogno di risposta. Guarda prima la moto, tutta impolverata. Poco fango, quei pochi schizzi sono dovuti alle tre pozzanghere in cui mi sono infilato un paio di volte. Guarda la mia faccia. La paresi facciale indica chiaramente stato di libidine permanente. Mi sono divertito alla grande, c’e’ poco da dire. Pranziamo assieme e ripartiamo subito dopo aver fatto un bagno. Il primo della stagione, a Settembre.

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Lucia si siede dietro di me. Percorriamo un po’ di sterrate finche non raggiungiamo un bel pezzo tecnico con delle grosse rocce. Qui uno dei paraoli delle forcelle del Transalp di Carlo smette di vivere. Non c’e’ da stupirsi. Per affrontare un gradino prende a manetta la roccia e la moto s’impenna d’un metro, un metro e mezzo, forse due. Insomma non so, io non ho visto e chiaramente i racconti del protagonista e di Lucia che lo stava guardando, superano i limiti dell’immaginazione umana.

Procedo tra i rami del bosco divertendomi alla grande. Il sentiero diventa un sigle track tortuosissimo. Le rocce affilate sembrano essere messe nella posizione giusta per tagliare a fette le gomme. Lucia mi intima urlando ad ogni curva. “Rallentaaaaaa. Pianooooo…. fammi scendere. “ io sono preso come da un raptus di follia. Pure in due. Su un terreno non facilissimo questa moto pare non fermarsi davanti a nulla. Come direbbe Abattantuono in un bel vecchio film che forse ha l’eta’ della mia moto : “EccezzZZzzziunale Veramente”

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